giovedì 26 giugno 2008

fusione e stereopsi

Vogliamo chiarirci se il fenomeno della fusione e il fenomeno della stereopsi, della visione binoculare, sono legati o meno, cioè se dove c’è fusione c’è steropsi e viceversa. A tal fine costruiamo la prospettiva di un pavimento a scacchiera come è visto da un occhio, ponendo il punto di vergenza al centro della stanza: per rendere ciò evidente nella prospettiva facciamo un asse verticale, il cui limite inferiore rappresenta il suddetto punto. Fatto ciò facciamo un flip orizzontale per ricavare una prospettiva simmetrica a questa. Affianchiamo le due prospettive per ricavare un’autostereografia. Chi ha difficoltà in questo senso può sempre ricorrere allo stereoscopio. Vedere il disegno seguente:






L’immagine binoculare che si ricava, non tenendo conto della stereopsi, è la seguente:










L’immagine è pulita perché la fusione orizzontale ha fuso le rette oblique che rappresentano la profondità, però possiamo notare che c’è stata anche una fusione verticale per le rette che rappresentano la larghezza. Questa fusione che riguarda la disparità verticale non produce stereopsi, come si può notare nel disegno seguente che riproduce la condizione di prima senza le rette della profondità:








Nella visione stereografica dell’immagine sopra, la fusione avviene, ciò che manca è la stereopsi. Le stesse rette, messe in verticale e viste in autostereografia, producono stereopsi, come si può constatare dall’immagine sotto:


















Dalle suddette esperienze possiamo concludere che la fusione è presente sia nella disparità orizzontale, ed in tal caso è combinata con la stereopsi, sia nella disparità verticale, ed in tal caso è uno dei tanti strumenti della mente per pulire la sovrapposizione delle immagini retiniche. Invece la stereopsi è legata al sistema punto di vergenza-disparità orizzontale.


mercoledì 11 giugno 2008

sul significato della parola arte 2

Baumgarten divideva la conoscenza in estetica e logica, attribuiva all’estetica una conoscenza confusa, mentre attribuiva alla logica una conoscenza distinta. L’arte era per lui una conoscenza confusa, infatti i libri che parlano di arte sono pieni di termini che non hanno nessun significato. In questi l’arte è “quel qualche cosa”, che non è possibile definire meglio. Questo non solo ai tempi di Baumgarten, ancora è così: per esempio io ho studiato sul Salvini, sto parlando del 1967, il quale finiva sempre la descrizione delle opere dicendo che avevano un “quid” che distingueva ciò che era arte da ciò che non lo era. Ciò perché l’arte non è opera di un uomo, ma di un semidio chiamato genio. E l’uomo può definire con il linguaggio l’opera di un quasi Dio? Scriveva Edward Young nel 1759: “Siamo grati al sapere ma riveriamo il genio; il primo ci dà piacere, il secondo ci rapisce; quello ci informa, questo ci ispira… il genio infatti deriva dal cielo, il sapere dall’uomo”. Lo scopo di questo lavoro è capire da dove viene il concetto di artista genio, se questo ci serve per parlare di arte è bene continuare ad usarlo, ma se è solo frutto di fantasia perché mantenere ancora nell’arte un linguaggio così ambiguo?

Prima del quattrocento, stiamo parlando dell’umanesimo, due erano le necessità dell’uomo: quella del fare, affidata ai tecnici, e quella del teorizzare, affidata agli scienziati. A noi non interessa se il lavoro dello scienziato veniva posto più in alto del lavoro del tecnico, ciò che a noi interessa è che in questo periodo si ricorre ad una terza figura, l’artista, in grado di soddisfare i bisogni più alti dell’uomo, quelli spirituali. Tutto ciò nacque nella Firenze quattrocentesca, da un interesse per la storia patria. In questo periodo si cominciò a scrivere della vita dei pittori, scultori ed architetti che con le loro opere davano lustro alla città, presentandoli come eroi, come eredi della tradizione greca e romana. Per esempio Botticelli fu chiamato il nuovo Apelle. In questo periodo furono ritrovati e pubblicati diversi testi antichi, Vitruvio, Cicerone, Plinio, che davano sicurezza a questo aggancio alla tradizione, anzi era un modo per dare importanza agli artisti fiorentini. Tutta questa ricerca si svolgeva all’interno di una cornice neoplatonica, ecco perché ai pittori, scultori e architetti furono attribuite qualità che erano legate ai miti della filosofia di Platone, soprattutto dobbiamo riferirci alle opere del Timeo (nel quale l’anima del mondo, precipitata sulla Terra dall’Iperuranio, riacquista le ali grazie a Eros, e può tornare a contemplare la perfezione delle idee), e del Simposio, dove Amore è, per natura, a metà tra ignoranza e sapienza. Riporto un poco del Simposio a maggior chiarimento:

- Quando nacque Afrodite gli dei tennero un banchetto, e fra gli altri anche Poro (Espediente) figlio di Metidea (Sagacia). Ora quando ebbero finito, arrivò Penia (Povertà), siccome era stata gran festa, per mendicare qualcosa; e si teneva vicino alla porta. Poro intanto, ubriaco di nettare, inoltrandosi nel giardino di Giove, schiantato dal bere si addormentò. Allora Penia meditando se, contro le sue miserie, le riuscisse avere un figlio da Poro, gli si sdraiò accanto e rimase incinta di Amore. Proprio così Amore divenne seguace e compagno di Afrodite, perché fu concepito il giorno della sua nascita, ed ecco perché di natura è amante del bello, in quanto anche Afrodite è bella. Dunque, come figlio di Poro e Penia, ad Amore è capitato questo destino: innanzitutto è sempre povero, ed è molto lontano dall'essere delicato e bello, come pensano in molti, ma anzi è duro, squallido, scalzo, peregrino, uso a dormire nudo e frusto per terra, sulle soglie delle case e per le strade, le notti all'addiaccio; perché conforme alla natura della madre, ha sempre la miseria in casa. Ma da parte del padre è insidiatore dei belli e dei nobili, coraggioso, audace e risoluto, cacciatore tremendo, sempre a escogitar intrighi d'ogni tipo e curiosissimo di intendere, ricco di trappole, intento tutta la vita a filosofare, e terribile ciurmatore, stregone e sofista. E sortì una natura né immortale né mortale, ma a volte, se gli va dritta, fiorisce e vive nello stesso giorno, a volte muore e poi risuscita, grazie alla natura del padre; ciò che acquista sempre gli scorre via dalle mani, così Amore non è mai né povero né ricco. Anche tra sapienza ed ignoranza si trova a mezza strada, e per questa ragione nessuno degli dei è filosofo, o desidera diventare sapiente (che lo è già), né chi è già sapiente s'applica alla filosofia. D'altra parte, neppure gli ignoranti si danno a filosofare né aspirano a diventare saggi, ché proprio per questo l'ignoranza è terribile, che chi non è né nobile né saggio crede d'aver tutto a sufficienza; e naturalmente chi non avverte di essere in difetto non aspira a ciò di cui non crede d'aver bisogno.//. Poiché appunto la sapienza lo è delle cose più belle ed Amore è amore del bello, ne consegue necessariamente che Amore è filosofo, e in quanto tale sta in mezzo fra il sapiente e l'ignorante. Anche di questo la causa è nella sua nascita: è di padre sapiente e ingegnoso, ma la madre è incolta e sprovveduta-.

Nel racconto di Platone Amore ha tutte le caratteristiche del genio. Infatti il genio è ignorante perché non ha studiato, ma nello stesso tempo possiede la sapienza perché fa le cose giuste. Come Amore è la terza posizione su tutto, tra mortalità e immortalità, tra ricchezza e povertà, così il genio è la terza posizione su tutto, anche tra il fare e il pensare, tra il tecnico e lo scienziato. Così nacque, nella Firenze rinascimentale, dopo il tecnico e lo scienziato, la terza figura: l’artista. Il concetto di artista ci parla dell’ammirazione che riescono a suscitare alcuni uomini in noi tutti, ma non dice niente dell’arte. Il linguaggio confuso di cui ci serviamo per descrivere questa figura, metà uomo e metà Dio, è un fatto filosofico e critico, non artistico.