Baumgarten divideva la conoscenza in estetica e logica, attribuiva all’estetica una conoscenza confusa, mentre attribuiva alla logica una conoscenza distinta. L’arte era per lui una conoscenza confusa, infatti i libri che parlano di arte sono pieni di termini che non hanno nessun significato. In questi l’arte è “quel qualche cosa”, che non è possibile definire meglio. Questo non solo ai tempi di Baumgarten, ancora è così: per esempio io ho studiato sul Salvini, sto parlando del 1967, il quale finiva sempre la descrizione delle opere dicendo che avevano un “quid” che distingueva ciò che era arte da ciò che non lo era. Ciò perché l’arte non è opera di un uomo, ma di un semidio chiamato genio. E l’uomo può definire con il linguaggio l’opera di un quasi Dio? Scriveva Edward Young nel 1759: “Siamo grati al sapere ma riveriamo il genio; il primo ci dà piacere, il secondo ci rapisce; quello ci informa, questo ci ispira… il genio infatti deriva dal cielo, il sapere dall’uomo”. Lo scopo di questo lavoro è capire da dove viene il concetto di artista genio, se questo ci serve per parlare di arte è bene continuare ad usarlo, ma se è solo frutto di fantasia perché mantenere ancora nell’arte un linguaggio così ambiguo?
Prima del quattrocento, stiamo parlando dell’umanesimo, due erano le necessità dell’uomo: quella del fare, affidata ai tecnici, e quella del teorizzare, affidata agli scienziati. A noi non interessa se il lavoro dello scienziato veniva posto più in alto del lavoro del tecnico, ciò che a noi interessa è che in questo periodo si ricorre ad una terza figura, l’artista, in grado di soddisfare i bisogni più alti dell’uomo, quelli spirituali. Tutto ciò nacque nella Firenze quattrocentesca, da un interesse per la storia patria. In questo periodo si cominciò a scrivere della vita dei pittori, scultori ed architetti che con le loro opere davano lustro alla città, presentandoli come eroi, come eredi della tradizione greca e romana. Per esempio Botticelli fu chiamato il nuovo Apelle. In questo periodo furono ritrovati e pubblicati diversi testi antichi, Vitruvio, Cicerone, Plinio, che davano sicurezza a questo aggancio alla tradizione, anzi era un modo per dare importanza agli artisti fiorentini. Tutta questa ricerca si svolgeva all’interno di una cornice neoplatonica, ecco perché ai pittori, scultori e architetti furono attribuite qualità che erano legate ai miti della filosofia di Platone, soprattutto dobbiamo riferirci alle opere del Timeo (nel quale l’anima del mondo, precipitata sulla Terra dall’Iperuranio, riacquista le ali grazie a Eros, e può tornare a contemplare la perfezione delle idee), e del Simposio, dove Amore è, per natura, a metà tra ignoranza e sapienza. Riporto un poco del Simposio a maggior chiarimento:
Nel racconto di Platone Amore ha tutte le caratteristiche del genio. Infatti il genio è ignorante perché non ha studiato, ma nello stesso tempo possiede la sapienza perché fa le cose giuste. Come Amore è la terza posizione su tutto, tra mortalità e immortalità, tra ricchezza e povertà, così il genio è la terza posizione su tutto, anche tra il fare e il pensare, tra il tecnico e lo scienziato. Così nacque, nella Firenze rinascimentale, dopo il tecnico e lo scienziato, la terza figura: l’artista. Il concetto di artista ci parla dell’ammirazione che riescono a suscitare alcuni uomini in noi tutti, ma non dice niente dell’arte. Il linguaggio confuso di cui ci serviamo per descrivere questa figura, metà uomo e metà Dio, è un fatto filosofico e critico, non artistico.
Nessun commento:
Posta un commento