sabato 12 aprile 2008

Lucia Giugno sulla pittura binoculare

Il lavoro di Nino Venezia è improntato a capire i meccanismi della visione, i quali operano nella nostra più assoluta inconsapevolezza, con l'antico strumento della pittura. Anche gli argomenti di cui parla sono vecchi, ci riportano ai tempi in cui l'arte era ancora un tema celeste: la prospettiva, la macchia, il disegno; però vale la pena ascoltarlo per l'interesse scientifico con cui affronta l'argomento, che proprio per questo diventa attuale. Per entrare nel personaggio bisogna sapere che è molto legato alla manualità, non nel senso manierista, che la mano esprime uno stile personale, nemmeno Freudiano, che attraverso il gesto della mano si liberano pulsioni interne, ma nel senso che vede la mano e l'arte legate da un legame indissolubile, al punto tale che per lui ciò che non è fatto dalle mani non è arte. Questa convinzione la giustifica dicendo che le parole “arte” e “arto” hanno la stessa radice, ed è una delle parola più antiche, di quando gli uomini usavano poche parole ed erano tutte necessarie, non come oggi che la parola arte significa tutto e niente. La parola arte, in sanscritto, significava ordine, disposizione, e l'arto era l'ordinatore, lo strumento con cui l'uomo mette ordine. In questo senso l'arte e la mano sono legate insieme. C'è di più, per lui la parola ordine è diventata una filosofia, mi ripete sempre che la creazione non si è fermata al settimo giorno, perché la creazione di nuovi ordini crea nuovi significati, senza che cambi niente nell'universo da un punto di vista fisico. Questo spiega il suo accanimento nel campo della pittura, dove da un punto di vista tecnico non l'ho visto mai in difficoltà, lavora con la stessa disinvoltura ad impasto come a velature, con gli inchiostri come con i colori ad olio, a matita come a carboncino. Perciò il discorso non è se riesce ad esprimere le proprie idee attraverso la pittura, ma se attraverso essa riesce a stimolare la nostra curiosità, molla di ogni interesse. Quando mi sono trovata davanti le sue opere ho capito subito ciò che era evidente, che il punto centrale della tela era molto curato, rifinito, al contrario della parte periferica della tela dove tutte le forme erano sfocate. Errore, mi disse, non sono sfocate, le macchie sono semplicemente più grandi, per cui saltano i particolari. Poi ho capito, quando mi invitò ad avvicinarmi al quadro e a guardare il centro della tela, che la struttura dell'occhio, con al centro i coni ed in periferia i bastoncelli, corrisponde alla composizione della tela. Ero tentata di spostare lo sguardo nella periferia della tela, non lo feci perché mi piaceva fare attenzione a quelle larghe macchie cercando di capire la visione con i bastoncelli. Fu con questa visione che quelle macchie mi sembravano perfette, addirittura avevo la sensazione di avere davanti a me una pittura tridimensionale. Questa esperienza ha fatto scattare in me la molla della curiosità, così mi sono avvicinata alla parte intellettuale della pittura binoculare di Nino. Di questa mi è piaciuto il riferimento all'attenzione. Se dividiamo la visione degli occhi con uno specchio, in modo che con un occhio guardiamo davanti e con l'altro di lato, il nostro cervello sovrappone le due prospettive, però non potendo arrivare ad una visione unica, sopprime le parti di prospettiva che non interessano, quelle parti che, per scopi vitali, non meritano la nostra attenzione. Questo meccanismo agisce nell'uomo nascondendo in parte la diplopia della visione binoculare; è questo meccanismo che che fa la differenza tra la fotografia, dove tutto è presente, e la visione umana che è fatta di attenzioni e soppressioni. Mi è piaciuta la sua nuova teoria del colore fondata sulla visione umana, perché va oltre gli scopi fotografici del fotoritocco. Il colore è intenso solo al centro del quadro e poco saturo in periferia, in parallelo alla struttura della retina che permette la visione colorata solo con la fovea, dove ci sono i coni abilitati alla visione a colori. Un'attenzione particolare merita la geometria dello spazio fondata sull'oroptero, il cerchio comune a due prospettive che hanno un punto di vergenza, cioè di due prospettive che guardano lo stesso oggetto. Questo addirittura dovrebbe farci cambiare modo di esprimerci in riferimento alla distinzione tra soggetto e piano di fondo, dovremmo dire cerchio di fondo, perché la visione umana è fatta di cerchi e non di piani. L'oroptero è quel cerchio che passa dall'oggetto guardato a dai nostri occhi ed è soprattutto l'area dove avviene la fusione, detta area di Panum, un altro meccanismo che due macchine fotografiche non possono avere, perché è una prerogativa del nostro meraviglioso cervello. In quest'area la visione è tridimensionale e la pittura di Nino non lo è. Egli dipinge gli oggetti che si trovano nell'oroptero con la prospettiva artificiale, come una macchina fotografica per intenderci, usando tutti i trucchi che un pittore conosce per dare il senso del rilievo. Questo scarto tra la sua pittura e la visione binoculare non è così rilevante in quanto interviene un altro fattore dovuto alla struttura della retina: l'acuità visiva. Questa ci fa vedere bene solo un punto che corrisponde al centro della fovea, poi, allontanandoci da esso, vediamo macchie sempre più grandi dove i particolari si perdono. Perciò la pittura di Nino è fatta di un centro ricco di particolari e dal colore intenso, e di una periferia con larghe macchie dai confini non sempre tangibili, dove ogni riferimento prospettico si perde. Questo vuol dire che guardando un quadro binoculare al centro, in modo che copra quasi tutto il campo visivo, si ha una visione molto vicina all'esperienza reale. Questa è una constatazione personale che il lettore, volendo, può provare e che, a mio parere, giustifica il nome “binoculare” con cui Nino chiama la sua pittura. Un'ultima cosa mi preme rilevare: la presenza del disegno nella parte centrale. Nella storia dell'arte, quando si affronta lo studio dei macchiaioli, si insegna che il disegno non esiste, infatti se guardiamo una fotografia non c'è disegno, ci sono macchie e sfumature. Lui mi disse che si riferisce al meccanismo on-off delle cellule ganglionari, che reagiscono solo ne caso in cui tra il centro e la periferia c'è un contrasto di luce. Ciò significa che se una cellula della retina è totalmente alla luce, o totalmente al buio, non reagisce. Questo meccanismo mette in risalto i contorni, il disegno è un contorno. L'unico rimprovero, detto alla buona, è che lui parla troppo del suo lavoro, quasi non lascia niente all'immaginazione dello spettatore; è che lui ragiona troppo sulla pittura, che parla alla nostra sensibilità. Però bisogna riconoscere che sensibilità e ragione sono gli elementi di cui ogni individuo è dotato e non si possono dividere. L'estetica ha voluto dividere le due sfere attribuendo l'arte a quella della sensibilità, come se questo fosse possibile. Quindi ben vengano i pittori razionali come Nino Venezia, di cui di una cosa possiamo essere sicuri, conosce il suo mestiere maledetto.

Niscemi, 10 aprile 2008, Lucia Giugno


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