giovedì 24 aprile 2008

Sul significato della parola arte

A mio parere, l’ottocento e il novecento hanno snaturato il significato della parola arte ingiustificatamente, pur premettendo che il mio è un discorso da pittore, non sono né un linguista, né un filosofo. Parlo perché vedo tanti ragazzi che scelgono gli studi artistici in quanto portati al disegno e alla pittura e alla fine degli studi non disegnano e nemmeno dipingono. Imparano a fare provocazione.
Studiando la storia dell’arte si capisce che il temine “arte” significa “ordine”, infatti si dice “arte dorica” oppure “ordine dorico”; si dice “ordine corinzio” per dire “arte corinzia”. Oggi alla parola “ordine” si preferisce la parola “stile”, questo da quando nella seconda metà del milleottocento si voleva che l’arte fosse come la musica, allora, la parola “stile” che era nata per designare l’ordine della scrittura, che si era evoluta designando l’ordine dei suoni, era passata a designare l’ordine delle forme. Perciò la parola “ordine” e la parola “stile” hanno lo stesso significato. Per ordine si intende la geometria spaziale di un oggetto, cioè la composizione, la disposizione, il carattere, l’equilibrio, la simmetria, la linea, eccetera. Però il lavoro dello storico dell’arte non si ferma qui, egli studiando i costumi, la filosofia, la storia di un popolo, lega quel determinato stile a tutto quel mondo spirituale che gli sta dietro e ne spiega così la necessità. Quindi “arte” sta per “ordine più significato”.
Al tempo delle corporazioni si discuteva se era giusto che i pittori facessero parte delle arti meccaniche, perché, facendo parte della corporazione dei tintori di lana, erano poco pagati e non erano rappresentati nel governo della Firenze di fine trecento. Questo portò alla rivolta dei Ciompi, con la quale i pittori ebbero una rappresentanza nel governo della città e fu riconosciuto loro che il lavoro del pittore era un lavoro intellettuale, perché dovevano conoscere la prospettiva e i testi sacri. La conseguenza di ciò portò il Ghiberti a scrivere un libro di storia dell’arte in cui, per la prima volta nella storia, stavano insieme pittura, scultura e architettura. I secoli seguenti accettarono questo insieme di discipline come rappresentative dell’insieme arte. Con questo voglio dire che la storia dell’arte come storia di pittura, scultura e architettura ha avuto un inizio ed era giusto che avesse una fine. Ciò che mi fa pensare non è questo, è ciò che è avvenuto a metà del millesettecento, epoca della manifattura. L’enciclopedia è la massima espressione di questo periodo, dove, attraverso i suoi autori, venivano esposte le due tesi dell’arte: d’Alembert sosteneva che l’arte è un dono di natura, che non si insegna (è strano che si sia creduto possibile sostituire con regole un talento così raro: sarebbe come voler ridurre il genio ad una precettistica) mentre Diderot poneva l’accento sulla scuola e sull’esperienza (se l’oggetto va eseguito, l’insieme e la disposizione tecnica delle norme secondo le quali va eseguito si dicono arte). Forse il mondo è fatto in modo tale che il massimo coincide con l’inizio del minimo, perché nello stesso tempo Baumgarten utilizzava la parola “estetica”, con la quale cambiò il significato della parola “arte”, che non era più “ordine prodotto con le mani”, bensì, “ordine che colpisce la nostra sensibilità”, cioè “ordine bello”. Tutto questo rietrava nell’atteggiamento preromantico che, nel tentativo di costruire dei significati fondati sulle nostre reazioni psicologiche, cambiò il significato di alcune parole. Per esempio il contrario di bello non era più brutto, perché brutto significava meno bello, ma sublime, in quanto il bello dà un senso di sicurezza, mentre il sublime, che indica il passaggio dallo stato solido a quello aeriforme, era lo scioglimento del nostro animo provocato da un evento inaspettato e terribile. Ora, se prendiamo un dizionario filosofico e cerchiamo la parola “arte” ci rimanda alla parola “estetica”, come se “arte” ed “estetica” avessero lo stesso significato. Questo sarebbe accettabile se l’estetica fosse la “scienza dell’arte”, ma l’estetica è definita, in filosofia, come la “scienza del bello e dell’arte”, definizione che porta a far coincidere “arte” e “bello”. La strada verso la distruzione della parola “arte” era aperta, perché tutto ciò portò a far diventare relativo, come è relativo il concetto di bello, il concetto di arte. Infatti gli etnografi, nel lavoro di indagine sui popoli rimasti fuori dal cerchio della civiltà, hanno preso gli oggetti prodotti da questi ed hanno chiesto quale fosse bello per loro. Ciò portò Marcel Mauss nel 1947 a scrivere che “un oggetto d’arte per definizione è un oggetto riconosciuto came tale da un gruppo”; il relativismo è totale. Praticamente Mauss dice che niente distingue l’oggetto d’arte dagli altri se non il fatto di essere stato scelto. Questo è vero per la religione perché qualunque oggetto può rappresentare il divino, in quanto ciò che si cerca non è un oggetto, ma un simbolo. Ciò che io non capisco è perché se studiamo l’arte greca accettiamo nell’insieme arte tutti gli oggetti trovati, descrivendoli attraverso lo stile e studiando ciò che è rimasto delle scritture greche per ricostruire, nel limite del possibile, il mondo spirituale dei greci, cercando di vedere la nacessità che ha prodotto questi oggetti. Siamo sicuri che, se fosse possibile, chiedendo al contadino greco di allora, quale di questi oggetti fosse bello per lui, avesse risposto il Partenone? O chiedendo allo schiavo egiziano, che avrebbe risposto la piramide di Cheope?

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